lunedì 23 novembre 2009

Maschile/Femminile

Il blog ha cambiato indirizzo:

http://cinema.webwoman.it/

martedì 10 novembre 2009

Qualcuno con cui giocare: Secretary (2002) di Steven Shainberg

Ci sono film d'amore che muovono le masse, che sono universalmente sentiti e vissuti dalle platee, e che commuovono col loro romanticismo di stampo tradizionale, archetipico. E ci sono film che si rivolgono ad un pubblico più ristretto, parlano di sentimenti in modo anticonvenzionale e provocatorio, ma non per questo sono meno romantici; anzi, sono ancora più toccanti perchè esprimono la necessità del sentimento vissuto in modo individuale, e l'immensa fortuna del riconoscimento in un altro tanto smarrito quanto simile a noi. Ed è questa la vicenda di Lee Holloway in Secretary, piccolo e bizzarro film che nel 2002 spopolò al Sundance Film Festival. Secretary non è Ghost, non è Moulin Rouge; Secretary non è l'amore trepidante, sospirato, il sentimento come afflato che muove ogni azione; non è la donna angelicata e salvifica, non è amore protettivo e accarezzato. Secretary è una favola oscura che si snoda al suono delle canzoni sensuali di Leonard Cohen, serpeggia in corridoi stretti, silenziosi e allusivi , per terminare dietro una porta chiusa dove forse si sta svolgendo una delle storie più tenere e romantiche mai narrate.
Il film ritrae un amore nero e destabilizzante, inatteso; è un amore che colpisce e chiede arrendevolezza; vuole scosse violente, ha bisogno del espresso con un linguaggio proprio, devoto e riconoscibile. Lee Holloway, timida e insicura, oppressa da problemi comportamentali e autolesionistici, e Edward G. Grey, avvocato solitario e misantropo, si riconoscono immediatamente e da lì parte la loro rinascita, il fiorire di una relazione complice e fedele.
Un certo marketing italiano ha promosso il film come operina pruriginosa sul sadomasochismo, e immagino che chi lo abbia acquistato spinto da certe curiosità lo abbia trovato incredibilmente noioso. Già, perchè la forza di Secretary non sta nelle scene di sottomissione - che pure ci sono, e a volte sono così scarne e dirette da sorprendere nella loro franchezza - ma nei dialoghi con cui i due protagonisti mettono il cuore e le pulsioni a nudo. Dialoghi secchi, essenziali, con cui Edward sancisce la sua protezione/dominio e Lee la sua remissività. Ma chi comanda chi, in fondo? L'interrogativo che pone il film è questo, e lo fa usufruendo di grande ironia, sottigliezza, espedienti narrativi che mettono in scena la scambio di ruoli tra schiava e padrone. E' Lee, infatti, a "comandare" il film; i suoi timori, il rischio con cui entra nel gioco, spinta da folle desiderio di vivere e di mettersi alla prova. Maggie Gyllenhaal è stupenda come creatura di immensa forza emozionale, trascinante, coraggiosa perchè decisa a vivere fino in fondo questa sua sessualità che diviene sua forza e salvezza. Edward G. Grey (lo straordinario, sensibile James Spader) non può che soccombere di fronte alla bellezza e alla guida luminosa di Lee.
Secretary rappresenta uno tra i più bei ritratti di emancipazione femminile, un film in cui una donna si riappropria con forza del proprio destino e della propria personalità; la riscossa di un'anima sperduta che nel suo concedersi in modo estremo, nello strisciare sulle ginocchia, nell'offrirsi alla forza liberatoria di una sculacciata ed al piacere erotico che ne trae, afferma il diritto e il divertimento di essere.

mercoledì 4 novembre 2009

La paura mangia l'anima, di Rainer Werner Fassbinder (1973)


Nel 1955, Douglas Sirk, emigrato a Hollywood con tutto il bagaglio di pessimismo romantico tipico degli autori di estrazione germanica (Lang, Wilder per citare i più famosi), realizzava Secondo Amore. Un film sublime, sull'impossibile amore tra una vedova benestante(Jane Wyman) ed il suo giovanissimo giardiniere (Rock Hudson) nell'america puritana e benpensante dell'epoca.
Fassbinder amava molto Sirk e soprattutto questo film. Ne amava la disperazione, il sentimento originario e istintivo che lo guidava; ne amava la malinconia, il pudore gentile dei protagonisti, il loro muoversi leggeri e incolpevoli nella vergogna e nella condanna generali, da parte di una società che non tollerava comportamenti "diversi".
18 anni dopo, il regista ricrea l'incantesimo bizzarro e la purezza di quel film con il suo La Paura mangia l'anima; spariscono, però, i sobborghi di lusso del New England, i giardini ben curati, l'eleganza iperrealista tipica della regia di Sirk. La paura mangia l'anima è un film immerso in realtà tristi e squallide, mura scrostate, edifici grigi e modesti; ed i protagonisti incarnano un nuovo ideale di vergogna sociale: la donna di mezza età, non bella e dimessa, ed il giovane immigrato nero.
Ciò che più colpisce della mano di Fassbinder è la sua capacità di comunicare l'amore in un contesto che appare danneggiato ed incurabile; il sentimento, puro ed ingenuo dei protagonisti, riveste di grazia il loro vissuto. La loro relazione è oggetto di scherno, di insulti, tanto da ridurre la coppia ad uno stato di miseria ed emarginazione sociale; ma questo amore che fa battere il cuore al film è reale e palpabile come i colori rossi, verdi, blu accesi che ogni tanto squarciano l'azzurro di stoviglia della pellicola.

La paura mangia l'anima è un film poetico e crepuscolare, composto ed eroico, un respiro fatto di emozioni limpide e intatte in una realtà incapace di sognare o tollerare chi aspira a volare sulle miserie umane.
Forse il film più dolce e romantico di Fassbinder, è allo stesso tempo quello in cui sentimenti sono rivelati nel loro valore immediato e quasi archetipico; un viaggio sentimentale in una realtà violenta, aggressiva e livida pronta ad assassinare la delicatezza di un affetto innocente. Amare è un mestiere per sopravvissuti.
(A Rimini, presso la cineteca comunale, è in corso fino al 24 novembre la rassegna Sentimenti Umani dedicata a Rainer Werner Fassbinder)

lunedì 12 ottobre 2009

Un autore che ama le donne: Hayao Miyazaki


"Ecco perché sono il più felice degli uomini: realizzo i miei sogni e sono pagato per farlo, sono un regista". Parafransando questa bellissima frase di Truffaut, vorrei dire: ecco perchè sono la più felice delle donne, perchè ho la possibilità di scegliermi i miei sogni e di viverli. Credo che tutte le persone che amano il cinema possano ritrovarsi in una simile affermazione: al punto che nella mia vita, in un certo periodo, vedere film era necessario quanto respirare e mangiare. Si era creata una sorta di dipendenza dal flusso emotivo delle immagini, avevo bisogno di calarmi in altre realtà e viverle, scoprire.
Non ho mai condiviso l'idea che vedere film sottragga alla vita vera, certo non deve diventare patologia, fuga dal reale. Nel mio caso il cinema e la vita si sono compenetrati molto bene, tanto che in alcuni momenti non sapevo dove iniziasse l'uno e finisse l'altra, e in quale misura dovessi considerare le emozioni cinematografiche come esperienze riflesse o fittizie: in fondo, mi portavo quelle sensazioni a casa, ne permeavo il mio pensiero, influenzavano le mie azioni, ampliavano la mia veduta come avrebbe fatto un viaggio in un paese remoto.
Se devo pensare ad uno degli autori in cui mi sono riconosciuta di più, e i cui film ho vissuto come incredibili avventure imprevedibili e impossibili come solo la vita vera può essere, mi viene subito in mente Hayao Miyazaki. Una tale citazione può sembrare assurda perchè Miyazaki è un regista d'animazione, che predilige tematiche fantastiche. Eppure quando vedo i suoi film, ho sempre la netta sensazione di vivere una vita intera, realistica per gli effetti e le impressioni che mi lascia addosso; pochi come lui utilizzano il fantastico come metafora esistenziale, ed i suoi fantasmi, le mutazioni fisiche, gli incantesimi che irrompono sono i traumi, le improvvise bellezze, il meraviglioso che condiziona le nostre vite.
A questo va unita la sua profonda capacità di analizzare l'animo umano, la sua fine percezione e sensibilità che gli permettono di descrivere personaggi così veri e familiari, in cui è facile tradurre la nostra esperienza personale. Quando vedo un film di
Miyazaki mi chiedo sempre come faccia a conoscere così bene i bambini, di cui sembra comprendere i segreti, quelli che la maggior parte degli adulti non vedono nemmeno più; ma soprattutto le donne, che sono la sua più grande ispirazione. Miyazaki mi dà l'impressione di essere amata e compresa, e mi dà fierezza per la sua fiducia sconfinata nell'eroismo e sensibilità femminili.
Se assisterete ad un film di
Miyazaki non solo vi si spalancheranno porte impossibili, perchè lui è il vero poeta dell'esistenza e di questo parlerò ancora; ma vedrete le lacrime, l'amore, i fiumi di gloria e di bellezza di eroine magnifiche e semplici, modeste e risolute, la loro felicità composta e la capacità di adattamento a qualsiasi tempesta pronta a sconvolgere le loro esistenze.
Sono immensamente grata ad
Hayao Miyazaki per avermi dipinto così bella.


mercoledì 7 ottobre 2009

Amori non corrisposti



Penso che non riuscire a far apprezzare un film, dalla persona che amiamo, sia un dolore terribile. E' come aprirsi, rivelare una parte di sè delle più remote e a volte insospettabili, e non trovare terreno fertile. Condividere un film è un dono. E' passare delle emozioni, un pezzo della nostra vita reale e immaginaria. Non penso che si debba per forza avere gli stessi gusti, anzi le relazioni migliori nascono dalla diversità e dall'arricchimento reciproco che questa comporta; ma penso che, per amore, bisognerebbe perlomeno cercare di capire perchè un film significhi tanto per l'altro; quale parte di sè vi risieda, quali proiezioni della sua anima lo illuminano. Lo si può amare anche se lo si detesta, perchè vi si riflette la persona più importante della nostra vita.
Ricordo ad esempio che, nei miei vent'anni, era questo il rapporto che mi legava a Wim Wenders; detestavo i suoi film, non mi sono davvero mai appartenuti, ma il mio ragazzo lo adorava e io guardavo ogni pellicola con gli occhi dentro lo schermo, alla ricerca di segreti da carpire, della chiave per comprendere il suo spirito sfuggente e anarchico. Nel bianco e nero di Wenders c'era l'ombra nascosta della persona che amavo.
Un film che non riusciamo a regalare è un amore non corrisposto.

martedì 6 ottobre 2009

Dal film alla citazione

Citatemi dicendo che sono stato citato male. (Groucho Marx)

Non esistono più i cineclub. Sono sparite le serate nei cinemini monosala, in cui ci si recava per vedere retrospettive e monografie assieme agli amici del cuore; magari con colonne sonore originali in ceco (mi ricordo ancora Gli amori di una bionda, di Forman), poltrone scomode, schermi sdruciti e pellicole così vecchie da autoincendiarsi (mi è capitato anche questo).
Eppure ho ricordi dolcissimi di queste serate, non solo per il loro carattere di occasione sociale tra intimi, gruppi di squinternati con la mania del cinema; ma soprattutto perchè in queste notti spartane, senza pop corn, senza aria condizionata, ho formato il mio gusto e la mia passione. Posso dire di aver avuto la fortuna di vedere retrospettive complete di autori come Fassbinder, Cassavetes, Cronenberg nel luogo che a loro più appartiene ovvero la sala cinematografica, in un'atmosfera di calore ed emozione che nessun salotto casalingo può riprodurre. Era una sorta di iniziazione che si faceva tutti insieme. Spesso mi recavo al cinema da sola, ma senza mai sentirmi sola.

Adesso vedo il diffondersi di un certo atteggiamento - le filmografie dei grandi registi non le conosce più nessuno, eppure tutti si danno alla citazione. Grazie a Youtube, è possibile informarsi su un certo autore, vedere cinque minuti di Bunuel o dieci di Truffaut, in senso puramente nozionistico ed enciclopedico. Non so come reagire di fronte a queste nuove abitudini fruitive.

Da un lato mi fa piacere perchè si risveglia l'interesse; dall'altro, la citazione, il breve brano, diventa un piacere puro a se stesso, un vezzo per far colpo sugli amici, e difficilmente il film verrà visto tutto.

La citazione cinematografica, in fondo, finisce col deprimermi. Mi sembrano epigrafi scritte su una lapide, di film che non sono più vissuti nè vivi. Necrologi dai tre ai sei minuti di durata.

lunedì 5 ottobre 2009

Forma

Ultimamente sento solo parlare di contenuti. Quasi che la forma avesse perso la sua importanza. Può darsi che questo modo di pensare sia frutto del mondo culturalmente e mediaticamente livellato in cui viviamo. Ma in realtà il contenuto è il prodotto della modalità di rappresentazione che lo struttura.

Un esempio. Il film To be or not to be (1942):
Questo è il film di Lubitsch, l'originale del 1942.



Questo é To be or not to be di Mel Brooks, remake del 1971



Questo infine Inglorious Bastards di Tarantino, che a To be or not to be di Lubitsch si ispira dichiaratamente



Si tratta ovviamente di tre film differenti che si muovono dalle medesime concezioni. Tre forme che si traducono in diverse visioni e permeano di sè i propri contenuti. Niente mi irrita quanto sentir dire che "la sostanza è ciò che conta". Una simile affermazione nega non solo l'arte ma lo stesso pensiero. Nemmeno una banale fotografia ha il dono dell'oggettività.